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La sindrome di Stoccolma si riferisce a un particolare stato psicologico caratterizzato da dipendenza affettiva, in cui l’ostaggio di un sequestro inizia a provare sentimenti positivi verso il proprio rapitore, nonostante i maltrattamenti subiti. Questa reazione sembra costituire una risposta emotiva automatica ed inconscia al trauma. Quindi, in situazioni di forte stress, che possono rappresentare una grossa minaccia per la propria vita, la vittima simpatizza per il proprio carnefice, in quanto la interpreta come unica via di salvezza. Per tale motivo, non è raro che la sindrome si verifichi anche in contesti più ampi, come le relazioni amorose. In questo articolo, approfondiremo la sindrome di Stoccolma, le relative cause e i sintomi, le opzioni di trattamento e quant’altro.

La sindrome di Stoccolma non viene considerata un vero e proprio disturbo mentale e, per tale motivo, non è mai stata inserita nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Si riferisce a una condizione psicologica in cui la vittima di un sequestro si affeziona al proprio rapitore. Si tratta di una situazione paradossale, in quanto l’ostaggio, anziché provare odio, avversione, antipatia e desiderio di sottrarsi all’esperienza traumatica, prova sentimenti di simpatia, empatia, fiducia, attaccamento, comprensione e, persino, amore nei confronti del proprio aguzzino.

La sindrome tende a manifestarsi più frequentemente nelle donne e nei soggetti dalla personalità fragile. In genere, durante la prigionia, il sequestratore spinge la vittima a credere che nessuno arriverà a salvarla. In questa fase, quindi, l’ostaggio inizia a provare sentimenti positivi, che si innescano inconsciamente, verso il proprio rapitore. Si tratta di un meccanismo automatico legato all’istinto di sopravvivenza. Nella mente della vittima, in modo totalmente irrazionale, si instaura l’idea che farsi amico il proprio aguzzino incrementi le proprie possibilità di salvezza. Così, non solo mostra empatia e affetto, ma tende anche a comprendere e giustificare i comportamenti del proprio sequestratore, che – sempre nella sua mente – potrebbe maltrattarla ulteriormente, ma che decide di non farlo.

Una volta sviluppato questo legame affettivo tra la vittima e il proprio aggressore, l’ostaggio inizia a provare sentimenti ostili verso le autorità che idealmente dovrebbero salvarla, ma che hanno tardato ad arrivare. Questo comportamento è dovuto al fatto che, in situazioni estremamente stressanti, le persone cooperano per combattere le aggressioni esterne. Quindi, la vittima vede nel proprio rapitore non più l’aguzzino da cui scappare, ma un alleato per affrontare l’evento stressante. In questo modo, si instaurano dipendenza psicologica e attaccamento emotivo.

È interessante notare che, anche a seguito della liberazione, la vittima continua prendere le parti del proprio rapitore, continuando a mantenere comportamenti ostili nei confronti della polizia, rifiutandosi di collaborare o di testimoniare e difendendo il proprio aggressore. Alcuni ostaggi decidono, persino, di organizzare raccolte fondi per aiutare il proprio aguzzino ormai incarcerato. O ancora, fanno visita al proprio sequestratore in prigione per assicurarsi che stia bene, ma comunque provando senso di colpa per la sua incarcerazione.

La sindrome di Stoccolma deve il suo nome a una famosa rapina alla “Sveriges Kredit Bank”, avvenuta in Svezia nell’agosto del 1973. I due rapinatori (Jan-Erik Olsson e Clark Olofsson) tennero in ostaggio 4 persone per un totale di circa 6 giorni. Durante questo periodo di forte tensione e trattative con le autorità, all’interno della banca si instaurò un legame affettivo reciproco tra le vittime e i propri sequestratori, la cui volontà era quella di proteggersi a vicenda. Al termine del sequestro, che si concluse con l’arresto pacifico dei due rapinatori e la liberazione degli ostaggi, le vittime andarono più volte a trovare i propri aguzzini in prigione. Una di queste, addirittura, divorziò dal marito per sposarsi con uno dei due rapinatori. Dai seguenti colloqui con le vittime, emerse che gli ostaggi temevano di più la polizia che non i propri aguzzini. Al contrario, nei loro confronti provavano sentimenti positivi e di riconoscimento.

Questo fatto permise al criminologo e psicologo Nils Bejerot, che collaborò con la polizia durante le negoziazioni, e all’agente dell’FBI Conrad Hassel di coniare il termine “sindrome di Stoccolma” per definire la reazione emotiva paradossale delle vittime nei confronti dei propri sequestratori.

Disclaimer: le informazioni fornite potrebbero non essere esaustive.

I sintomi tipici della sindrome da Stoccolma possono includere:

  • Sviluppare simpatia, affetto, attaccamento e, persino, amore nei confronti del proprio rapitore;
  • Rifiutarsi di scappare, nonostante se ne abbia la possibilità;
  • Rifiutarsi di collaborare con le forze dell’ordine incaricate del salvataggio degli ostaggi;
  • Difendere e giustificare il comportamento e le azioni dei rapitori;
  • Assoggettarsi e collaborare con il sequestratore.

Anche a seguito della liberazione, i soggetti con la sindrome di Stoccolma continuano ad avere sentimenti positivi nei confronti del proprio rapitore. Alcune vittime, addirittura, si recano in carcere a far visita ai propri sequestratori. Da un lato, vogliono assicurarsi che stiano bene, ma dall’altro provano senso di colpa per la loro incarcerazione. Inoltre, capita spesso che mantengano un atteggiamento ostile nei confronti della polizia, anche a distanza di tempo.

A seguito dell’evento scioccante vissuto, la vittima può presentare anche altri sintomi psicologici, come:

  • Disturbi del sonno;
  • Incubi ricorrenti;
  • Fobie;
  • Depressione;
  • Flashback dell’evento traumatico accaduto.

Disclaimer: le informazioni fornite non sono da considerarsi esaustive.

Le cause della sindrome di Stoccolma non sono ancora del tutto chiare. Tuttavia, secondo gli esperti, la condizione si svilupperebbe in 4 diverse tipologie di situazione, quali:

  • Sviluppo di sentimenti positivi, come comprensione, simpatia, affetto, riconoscenza e quant’altro, da parte della vittima nei confronti del suo sequestratore. Sembrerebbe che alcuni gesti di “gentilezza” da parte del rapitore, come fornire cibo e acqua, hanno un impatto positivo sulla psiche dell’ostaggio, che è portato a “dimenticare” la situazione di pericolo in cui si trova e a simpatizzare o giustificare il sequestratore.
  • Mancanza di una precedente relazione tra l’ostaggio e il rapitore. Sembrerebbe che non conoscere il proprio sequestratore provocherebbe una sorta di vuoto emotivo nella vittima, che cercherebbe di colmare, sviluppando dei sentimenti verso il proprio aguzzino;
  • Sviluppo di sentimenti negativi da parte della vittima nei confronti delle autorità che l’hanno liberata. A seguito della condivisione di una situazione così fuori dal comune in un contesto isolato con il proprio rapitore, l’ostaggio sviluppa un’avversione verso le forze dell’ordine, che inizialmente tardano ad arrivare, per poi invadere il luogo di condivisione. Questa dinamica spinge la vittima ad aiutare il suo stesso sequestratore, difendendolo dalle forze governative;
  • Fiducia dell’ostaggio nell’umanità del proprio sequestratore. L’ostaggio sviluppa un senso di fiducia e, più passa il tempo, questo attaccamento cresce. Così, la vittima non teme più che possa accadergli qualcosa di male, ma ha paura che qualcuno (in questo caso, le forze dell’ordine) possa danneggiare il suo stesso rapitore.

Un ulteriore fattore predisponente allo sviluppo della condizione, secondo gli esperti, è la durata prolungata del sequestro. Il periodo di stretto contatto tra vittima e sequestratore farebbe sì che l’ostaggio si affezioni sempre di più al suo aguzzino e manifesti sentimenti di attaccamento, dipendenza, riconoscenza e quant’altro.

Disclaimer: le informazioni fornite potrebbero non essere esaustive.

Nonostante la sindrome di Stoccolma si sviluppi più frequentemente in situazioni di forte stress, come in caso di rapimenti o sequestri, non è raro che si presenti anche in contesti più ampi che coinvolgono le relazioni umane, come quelle amorose. A tal proposito, infatti, può capitare che la sindrome di Stoccolma si riscontri in relazioni romantiche, caratterizzate da squilibri di potere, manipolazione emotiva ed abusi. In questi casi, la persona che subisce comportamenti coercitivi o dannosi messi in atto dal proprio partner può ritrovarsi a sviluppare dipendenza affettiva e attaccamento emotivo verso il proprio carnefice, rendendo difficile per la vittima interrompere questa dinamica disfunzionale.

Considerando che la sindrome di Stoccolma deriva da un istintivo spirito di sopravvivenza, in cui la vittima cerca di instaurare un rapporto affettivo con il proprio aggressore, ugualmente, in amore, la persona abusata sperimenta una serie di reazioni emotive di adattamento psicologico, volte alla propria “sopravvivenza” all’interno della relazione tossica. Nella maggior parte dei casi, l’abusato non è consapevole di queste dinamiche. Infatti, una serie di sottili manipolazioni perpetrate nel tempo da parte dell’abusante, che inizialmente possono sembrare comportamenti apparentemente innocui agli occhi dell’abusato, può via via modificare la natura della persona, che finirà col tempo per giustificare e difendere tali comportamenti malsani. Di conseguenza, si instaura una relazione di dipendenza, che non ha nulla a che fare con il vero amore.

A tal proposito, sono diverse le fasi che portano allo sviluppo della sindrome di Stoccolma in amore:

  • Negazione: come abbiamo appena menzionato, il soggetto abusato, per via della fiducia nel proprio partner, dell’amore, dell’intimità e quant’altro, tende a non interpretare nel modo corretto i comportamenti tossici e sbagliati dell’abusante, finendo così per giustificarli. La negazione costituisce un primo meccanismo di difesa di fronte a situazioni di paura e stress ed è ciò che permette alla vittima di affrontare la relazione abusiva con “normalità”.
  • Consapevolezza inconscia: anziché chiedere aiuto per uscire da questa relazione tossica, la vittima inconsciamente sperimenta reazioni emotive automatiche, come tentativo di difesa. Queste portano l’abusato a mostrare un attaccamento sentimentale illogico nei confronti del proprio abusante, finendo così per instaurare una dipendenza emotiva con esso.
  • Complesso di Stoccolma: il senso di impotenza e l’impossibilità di uscire da quella relazione contribuiscono alla volontà di collaborare con il proprio abusante. La vittima, quindi, continua a comprendere, giustificare e a negare i comportamenti violenti e tossici del partner.

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Alcuni esempi di persone che hanno sviluppato la sindrome di Stoccolma a seguito di un sequestro sono:

  • Una ricca ereditiera, Patricia Hearst, venne rapita dall’Esercito di Liberazione Simbionese nel 1974. Pochi mesi dopo, prese parte a una rapina con due dei suoi sequestratori, per poi essere arrestata nel 1975. La tesi della sindrome di Stoccolma non riuscì a salvarla dal carcere. Infatti, venne condannata a scontare 7 anni.
  • Giovanna Amati, la figlia dell’industriale cinematografico Amati, venne rapita nel 1978 e liberata dopo qualche mese a seguito del pagamento di un importante riscatto da parte del padre. Tuttavia, si dice che, durante la prigionia, la donna si fosse invaghita del suo rapitore, il quale venne arrestato poco dopo il rilascio di Giovanna Amati.
  • Shawn Hornbeck venne tenuto prigioniero per 4 anni e venne ritrovato casualmente durante le ricerche di un altro ragazzino scomparso. Durante gli anni di prigionia, Shawn venne visto giocare con il suo rapitore nel giardino di casa, tant’è che i vicini pensarono addirittura che fossero padre e figlio. Non solo, il ragazzo ebbe accesso anche a cellulare, internet, tv e quant’altro, ma non utilizzò mai alcun dispositivo per inviare richieste di aiuto.

Disclaimer: le informazioni fornite non sono necessariamente esaustive.

La sindrome di Stoccolma non è considerata un disturbo mentale. Infatti, la comunità psichiatrica ha valutato più volte la condizione per decidere se inserirla o meno nel DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali). Tuttavia, non avendo i presupposti, gli esperti hanno sempre optato per la sua esclusione. Per tale motivo, non essendoci dei criteri diagnostici prestabiliti, non esiste un test per diagnosticare la condizione. Nonostante ciò, una valutazione psicologica attenta potrebbe aiutare a delineare il quadro della vittima e scegliere la terapia più funzionale, se necessaria.

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Come appena menzionato, la sindrome di Stoccolma non viene considerata un disturbo mentale, motivo per cui non esiste un piano terapeutico specifico. In genere, il tempo aiuta a ristabilire l’equilibrio psichico della vittima. Tuttavia, alcune terapie potrebbero aiutare il soggetto ad elaborare il vissuto traumatico, a superare gli effetti che ne sono derivati e a gestire i sentimenti contrastanti che prova nei confronti del proprio rapitore. In tal senso, un approccio particolarmente utile è quello della terapia cognitivo-comportamentale, che contribuisce a favorire la guarigione emotiva e il superamento del trauma. Inoltre, è bene ricordare che, qualsiasi approccio si decida di avere, il supporto da parte della famiglia e degli amici della vittima si rivela di fondamentale importanza.

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